Il lato oscuro della “Dolce vita” tra Cia e Kgb

Fine anni Cinquanta tra gli ombrelloni dei famosi bar, divi, paparazzi e macchinoni americani. Di questa Roma, l’ultima fatalmente “felice”, ma già fragile, scatta una “istantanea” Andrea David Quinzi, con Le fotografie della nostra vita, un giallo magnetico che sa di spy story e scava dentro il “lato oscuro” della Dolce Vita, al centro della guerra fredda…

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La bella Roma fine anni ’50, colpita dall’ “improvviso benessere”: quei volti dell’Italia immersa nell’insperata agiatezza del Miracolo economico, della desiderata società dei consumi. La Roma rutilante e perdigiorno. In pieno fermento. Quella Roma che si raduna, sorridente e chiacchierona, a via Veneto, in Piazza del Popolo, in via Margutta, al Corso.

La Dolce Vita. Gli ombrelloni campeggianti dei famosi bar, le macchinone americane che fanno mostra di se nelle strade ancora con poco traffico. Le Vespe. Fellini e Flaiano. Produttori e cinematografari vari sempre in cerca di progetti e di soldi. Divi, e quasi divi, che hanno fatto di via Veneto un loro nuovo palcoscenico, da calcare dall’imbrunire a notte fonda. Giornalisti e press agent. E gli agenti degli attori. Paparazzi. Ristoranti. E una nuova legione di stranieri innamorati di Roma e delle sue bellezze. “Maccaroni” e “Latin lovers”. Tutto appare sereno ed inscalfibile, eppure… nella totale (e permanente) inconsapevolezza di tutti, una minaccia c’è: è una minaccia che arriva dal buio, inavvertita; una minaccia che tiene alla propria “segretezza”.

Di questa Roma, l’ultima finalmente e fatalmente “felice”, ma già, come si sta per vedere, fragile, scatta una “istantanea” Andrea David Quinzi, con Le fotografie della nostra vita, un giallo magnetico che sa di spy story e scava fin dentro la parte più nascosta della città, dentro il “lato oscuro” della Dolce Vita, nelle sue insospettabili (e prontamente rimosse, al caso) “pieghe”, e lo fa con la consistenza ed il ritmo di un film che lascia senza respiro.

Novembre 1958. Mentre la nostra Roma rivaleggia per mondanità ed attrattiva con le altri grandi città del mondo (a proposito, ricorda ispirato Federico Fellini: “… quando sembrava che Roma avesse sostituito New York… “), tutti ignorano la disputa che si sta ordendo ad un tavolino del bar Rosati di Piazza del Popolo.

Proprio sul finire di una bella giornata soleggiata, vi scopriamo a colloquio un senatore americano ed un generale russo. I “servizi”, come è noto, non conoscono tregua, né momentanei “paradisi”, per loro Roma “rinata” non è altro che uno dei tanti territori ove si gioca parte del Risiko globale: certo, anche i nostri due non sono indifferenti alla bellezza che li avvolge, ma sono mossi da “motivazioni superiori”, dalla “missione da compiere”, non hanno quindi affatto lo stordimento del turista, soltanto la determinazione del giocatore d’azzardo.

La chiacchierata è solo l’inizio di un intreccio che parla di blocchi contrapposti, di “guerra fredda”, di armamenti nucleari, di spie.  Poco dopo a Testaccio viene rinvenuto il cadavere di un uomo. Le indagini portano immediatamente il Commissario della Stazione di polizia di Trastevere Bordin a dedurre il coinvolgimento di Gino, un fotografo di Via Veneto, uno dei tanti “paparazzi” d’assalto. Quando sta per agire, Bordin viene però subito fermato; arriva un ordine “superiore”, diretto, da parte del Governo, sollecitato dagli americani, che gli impone di abbandonare il caso e di lasciarlo ad un agente della Cia: Sal Ciccone, origini italiane ed un lavoro di copertura all’ambasciata.

A questo punto la ricerca di un misterioso rullino fotografico diventerà il target del fotografo, del commissario ed anche della spia. Si scatena così, nel segreto, uno dei tanti (piccoli) conflitti territoriali dello spionaggio internazionale. Roma non ne è immune: l’escalation delle minacce belliche è già al calor bianco. Questa insidiosa caccia al tesoro li condurrà per strade del centro, hotel di lusso, per vicoletti, locali e ristoranti. Vi incontreranno divi del cinema, fotografi e agenti del Kgb. Infine i tre si ritroveranno alla “celebre” festa della contessa Olga di Robilant al ristorante Rugantino di Trastevere, celebrata e ricordata ancor oggi per lo scandalo che provocò. Qui il celebre spogliarello di una ragazza -Aiché Nanà- deciderà la loro sorte, dipanando la matassa; uno spogliarello che diverrà il simbolo stesso della Dolce Vita.

Della “bella” Roma che narra, Quinzi, romanziere con attenzione alla storia, anche quella minima, non ci fa perdere un solo fotogramma (… in movimento): Porta Pinciana, attraversata dal vento, William Wyler e le riprese incombenti di Ben Hur, via Teulada ed il nuovo Centro di Produzione della Rai, il ristorante Alfredo alla Scrofa, la Rupe Tarpea, Fellini e Flaiano che parlano tra loro seduti ad un tavolo del Café de Paris, Tazio Secchiaroli, Barillari e i loro colleghi paparazzi che non conoscono ostacoli, il cinema Mazzini a via Montello, il Caffé Grande Italia di Piazza Esedra, gli addetti stampa delle case cinematografiche… e si potrebbe continuare; ma Quinzi, oltre all’evidente, a quello che gli “passa” davanti agli occhi, con amore autentico per la città, ne racconta contraddizioni, bellezze e sofferenze: anche con  l’attenzione rivolta alla storia recente della città, con la vicenda del bombardamento di San Lorenzo, ad esempio.

Siamo difronte ad un bellissimo romanzo: maturo, consapevole, che articola il racconto su più livelli; ne trapela la passione di Quinzi per il cinema, anche (e forse soprattutto) nei suoi risvolti “sociali”, ma anche l’attenzione imprescindibile alla storia della città, ed il “coinvolgimento” dell’autore nei destini dei suoi personaggi, che descrive con solido piglio da narratore. Il tutto portato avanti con una trama decisamente inconsueta, che impianta sul palcoscenico “pacioso” della Dolce Vita una spy story complessa, senza esclusione di colpi né di “colpi di scena”.