Napoli è mille segreti. Viaggio (cinematografico) tra le devozioni popolari di un mondo a parte

Una città sepolta e segreta. La Napoli dei tanti rituali antichissimi, tra i quali quel culto dei morti, delle anime del Purgatorio, davanti a teschi ed ossa conservati al cimitero delle Fontanelle. Lo studioso tedesco Ulrich van Loyen compie un notevole lavoro di ricerca “sul campo” col libro “Napoli sepolta. Viaggio nei riti di fondazione di una città” (Meltemi, 2020, pag. 408) che si addentra nei luoghi della devozione popolare tanto indagati da Luigi Di Gianni, Ernesto De Martino. Un libro, insomma che sembra un film, meglio un documentario …

La Napoli “sepolta” è anche una Napoli (ancora) “segreta”. Un “artigiano” visionario del documentarismo etnografico, un filosofo fuori dagli schemi e dal tempo, Luigi Di Gianni (Napoli, 20 ottobre 1926 – Roma, 10 maggio 2019), narratore di religione e di genti, appare – ogni tanto-, aleggia ed illumina, assieme a tanto altro, questo davvero notevole lavoro di ricerca “sul campo” di Ulrich van Loyen: Napoli sepolta. Viaggio nei riti di fondazione di una città (Meltemi, 2020, pag. 408), dedicato proprio all’ipogeo, al culto dei morti, delle anime sante del purgatorio, culto ufficiale o meno, nella città di Napoli.

Spinto a fare documentari nel Sud del Paese, seguendo le orme dell’antropologo Ernesto De Martino (Sud e magia, 1959), Luigi Di Gianni, di Napoli, abitante a via Chiaia, da innamorato di quella città, ha raccontato i vari aspetti, inconsueti, della devozione popolare.
A cominciare dai documentari Grazia e numeri (1962) e L’Annunziata (1962) che con altri van Loyen cita nella “filmografia” dedicata del volume.

Come mi ha raccontato Di Gianni, in una lunga intervista (Rapporto confidenziale. Luigi Di Gianni. Cinema e vita, Nuova Cultura, 2012) “Grazia e numeri è legato al culto delle anime del purgatorio (…) ed è, però, un documentario che non potei sviluppare in un modo compiuto (…). Infatti, senza chiedere permesso alcuno, entrammo nella grande Chiesa di Sant’Agostino alla Zecca, che non era chiusa e cadente come appare oggi.

Nella chiesa, nell’ipogeo il culto: i fedeli pregavano ed evocavano formule sacre davanti alle ossa, a resti mortali trovati casualmente nel cimitero sotterraneo e cercavano l’intercessione delle anime del purgatorio. I teschi acquistavano un’identità, un nome al quale rivolgersi, nella fantasia popolare, tra veglia e sogno…
Dopo un paio di giorni di intenso lavoro, però, fummo costretti ad abbandonare la chiesa, stavamo filmando senza permesso…
Intervennero, infatti, le autorità ecclesiastiche che non potevano consentire che si facesse da cassa di risonanza a pratiche considerate magico-superstiziose. Ed allora, in seguito a questo impedimento, il documentario prese un’altra strada, puntando su altri aspetti magici e soprattutto sul gioco del lotto, sul’attesa dei numeri rivelati in sogno…”.

Ecco, in sintesi estrema, i temi che lo stesso van Loyen si trova ad affrontare; a cominciare dalla presenza incombente dell’immenso ossario, il cimitero delle Fontanelle, alla Sanità, che ospita, si dice, i resti di 40 mila persone.
Che Italia era quella che de Martino e Di Gianni illustravano?

Erano, più o meno, gli anni delle grandi ricerche etnografiche, come quella di Alan Lomax e Diego Carpitella (anch’egli collaboratore di Ernesto de Martino), che nel 1954 e 1955 dentro un pulmino molto ben attrezzato giravano il Paese per un’indagine scientifica davvero fondamentale: la ricerca di suoni e canzoni popolari che andavano raccolti in fretta, prima che svanissero dalla memoria. Un lavoro che sapeva di archeologia, di ricomposizione di mosaici, per la cura richiesta. Un lavoro che necessitava di enorme passione. La storia di questa specifica puntigliosa ricerca è raccontata da Luigi Faccini in un bel documentario (Radici).

Da più parti insomma si temeva che quell’Italia arcaica fosse destinata a cambiare, sparire, polverizzarsi in fretta. Era profetizzato dal “progresso” che interessava il Paese, che incalzava, talvolta in modi tutt’altro che “gentili”, o “rispettosi”, raccontato anche da opere cinematografiche come quella dibattuta e tuttora “misteriosa” di Joris Ivens (L’Italia non è un paese povero 1960).
Tutto cedeva, cambiava, tranne, forse, Napoli. Napoli coi suoi “segreti”.

Scrive, infatti, su questo conto van Loyen: “A partire dal maggio 2013 ho trascorso a Napoli quattordici mesi, nella convinzione che lo studio del culto delle anime sante del Purgatorio contribuisca in maniera determinante a comprendere meglio il modo in cui si articola l’appartenenza all’interno di una civiltà mediterranea dalla storia lunghissima e stratificata su vari livelli. Il rapporto con le anime sante del purgatorio passa per un culto pittoresco pieno di teschi, all’interno di grotte debolmente illuminate da candele, inteso, per così dire, a regolare uno scambio di doni tra defunti anonimi e viventi. Tuttora giungono notizie della sua vitalità, benché i giovani accademici di Napoli e la cultura popolare abbiano cercato di storicizzarlo già molto tempo fa”.

Culto ancora, tutt’ora, vitale, dunque, apprendiamo; ed inserito nella complessa situazione sociale napoletana. Il tutto richiama immediatamente ad una condizione “specifica” di Napoli, che allo scrittore appare staccata per originalità dal resto d’Italia.
Dichiarava Pier Paolo Pasolini ad Antonio Ghirelli, durante le riprese del Decameron, effettuate a Napoli: “Napoli è stata una grande capitale, centro di una particolare civiltà ecc. ecc.; ma strano, ciò che conta non è questo. (…) Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare.

Questa tribù ha deciso – in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte – di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. (…). Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto.
La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vichi, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere (…). Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati).

I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili”.
Nelle parole di Pasolini la “tribù” partenopea viene riassunta come un composto di resilienza ed unicità. Convivendo, tra l’altro, con un vulcano e col bradisismo.

La lunga, rigorosa, documentata ricerca di van Loyen si attesta inizialmente al rione Sanità, del quale lo studioso tedesco diviene “abitante”, pienamente coinvolto cioè nelle dinamiche sociali, culturali e “politiche” contemporanee. Presenza evidente della camorra inclusa, come in tutta la città, che cerca di includersi in ogni processo sociale.
È lì, alla Sanità, che storicamente il culto delle anime sante del purgatorio, della ricerca della loro intercessione con l’ “alto” si identifica.

Lo studio del ricercatore tedesco presto però si estende: “tutti i lunedì, le visite all’ipogeo della chiesa di San Pietro ad Aram, in pieno centro cittadino, dove incontravo una veggente legata a questo stesso luogo, e tutti i venerdì quelle alla cripta dei Santi Cosma e Damiano a Secondigliano. Infine, ho dedicato gli ultimi mesi a un altro culto nel “mio” quartiere, quello della Madonna dell’Arco”.

Oltre che in lavori letterari, resoconti, le Fontanelle hanno la loro raffigurazione anche nel cinema con Viaggio in Italia (1954) di Rossellini. Qui, la Ingrid Bergman, turista, in una Napoli talmente diversa dal resto del Paese da incantarla e frastornarla, finisce, guidata da un’amica, dentro il grande ipogeo: al suo sguardo teschi, scheletri, altarini improvvisati, fedeli, giaculatorie. È davvero una piccola sequenza, nella quale però emerge appieno l’attitudine di Rossellini al racconto senza veli, al suo amore per il cinema e per quanto può illustrare ed insegnare.

Scrive l’autore di Napoli sepolta: “Le ossa delle Fontanelle appartenevano probabilmente alle vittime sepolte in forma anonima durante le grandi epidemie di peste e colera (1656 e 1836-1837, rispettivamente), anche se qualcuno crede che siano semplici resti di tombe abbandonate, trascinati via dalle intemperie oppure eliminati a causa della ben nota mancanza di spazio”.

A Napoli la peste arrivò nel 1656 dalla Spagna, provocando circa 200.000 morti, ossia quasi metà della popolazione.
Alle Fontanelle o nelle cripte di varie chiese cittadine: S. Maria del Purgatorio ad Arco, Sant’Agostino alla Zecca, S. Maria della Sanità, San Pietro ad Aram, Ss. Cosma e Damiano, le tante ossa venute alla luce nel tempo :“consegnate all’oblio, rafforzano il legame tra vivi e morti e, in una certa misura, istituiscono la città come contesto di misericordia. I teschi venivano curati e venerati o, proverbialmente, “adottati”, per rendere possibile il passaggio al purgatorio dei defunti a cui erano appartenuti. I resti fungevano da tracce visibili delle persone, in maniera a prima vista analoga al culto delle reliquie dei martiri, testimoniato fin dal III secolo” (ancora van Loyen).

Lo “scambio di doni” tra vivi e morti prosegue, tutt’oggi, ricco e nutriente, con una devozione sincera, in una città della quale non ci stanchiamo mai di vedere la grandezza e l’originalità, la possanza ed anche, purtroppo, la vulnerabilità. Ben oltre, comunque, il folclore da cartolina illustrata e dei luoghi comuni.
Chi vuol comprendere la città, deve cominciare a “vedere”, anche negli ipogei come nei vicoli, nei musei, nelle chiese e nei rioni, come ha fatto, con grande capacità e metodo, Ulrich van Loyen.