L’intera umanità in “Tre piani”. Il libro di Eshkol Nevo che ha stregato Nanni Moretti

“Tre piani” (Neri Pozza) è l’ultimo libro dello scrittore israeliano, Eshkol Nevo, di due anni fa, che Nanni Moretti ha portato al cinema. In una palazzina di Tel Aviv si avvicendano le esistenze di un variegato numero di personaggi. Relazioni fatte di scoperte degli altri che consentono la scoperta di sé. Dove la quieta morale è ipocrisia, dove la follia può essere una scelta, dove una mancanza può diventare lo strumento per riempire altri vuoti. Racconti coinvolgenti. Dove non conta più la trama ma solo la voglia di svelarsi …

“Tre Piani“ di Nanni Moretti Sacher Film – Fandango

Numeri da usare per negare i numeri. Numeri magari usati per deridere chi vorrebbe ingabbiare dentro uno schema l’intero arco delle esperienze umane.

Numeri, allora. A cominciare dal titolo: Tre piani. L’ultimo libro dello scrittore israeliano, Eshkol Nevo che Nanni Moretti ha adattato per il cinema.

Tre piani che hanno una prima, facile lettura, suggerita del resto anche nella breve introduzione all’edizione di Neri Pozza. Tre, come le storie raccontate, tre come le diverse istanze freudiane delle personalità: l’Es, l’Io, il Super-Io.

Ma anche qui, lo schema – neanche il più avanzato e sofisticato – basta a svelare tutto. Perché i protagonisti sono tanti, molti di più. E soprattutto i protagonisti cambiano col procedere delle pagine. Vivono in quella palazzina né ricca, né povera – ma non anonima – appena fuori da Tel Aviv.

Che è anche la città dove oggi insegna lo scrittore, che lì ha deciso di tornare dopo un breve peregrinare negli Stati Uniti. Lì, dove c’è la sua storia, le sue radici. Lui che è nipote di quel Levi Eshkol, che è stato fra i fondatori di Israele, che è stato primo ministro dopo Ben Gurion. Che è stato una di quelle figure incomprensibili per chi non ha vissuto quel periodo e quelle contraddizioni, fondatore di uno dei partiti della sinistra israeliana, quando ancora si teorizzava la simmetria fra kibbuz e socialismo e poi diventato una icona bipartizan.

Tel Aviv, dunque. Una palazzina della periferia tranquilla ma non ricca di Tel Aviv. Dove al primo piano c’è la famiglia di Arnon ma dove c’è anche un’altra casa, dove vive una coppia di anziani, il cui vecchio marito soffre di Alzheimer. Che si manifesta all’inizio con piccoli segnali forse sottovalutati, prima che la malattia si sveli in tutto il suo dramma. Ma soprattutto prima che Arnon sospetti che sua figlia piccola sia stata vittima di molestie, proprio ad opera di quell’anziano malato. E prima che lo stesso Arnon attraversi le conseguenze di un rapporto ingovernabile con una adolescente.

E poi c’è il secondo piano. Dove abita Hani, che ha lasciato la sua professione di grafica forse per dedicarsi a tempo pieno al figlio o forse no. Hani che parla col barbagianni appollaiato nella quercia di fronte al salotto nelle lunghe, interminabili giornate e nottate in cui resta da sola, col marito lontano al lavoro. E che riceve la visita inaspettata del cognato, in fuga disperata dalla legge e dalle mafie. E col quale riscopre la sua identità, la sua voglia di vivere. Di essere considerata.

Infine, c’è il terzo piano. Dove viveva una coppia di giudici, lui affermato, lei meno. Dove viveva anche un figlio che però si è allontanato, in rotta col padre. Viveva, al passato. Perché ora il giudice è morto ma lei continua quotidianamente a dettagliargli il diario delle sue giornate. In attesa di qualcosa. Che arriverà. Ad interrompere la routine.

È strano comunque che proprio al piano più alto, il terzo, il “più lontano”, ci siano i soli echi della città che fa da sfondo al libro. Con Dvora, la vedova, che – all’inizio più per curiosità che per impegno sociale – sceglie di sostenere in qualche modo le persone che occupano una piazza del centro, una sorta di Occupy Tel Aviv.

Ma i numeri? Appunto, tanti, non riducibili ad unità. O forse sì, per assurdo. Nel senso che c’è una categoria che potrebbe diventare la chiave di lettura di Tre Piani: l’originalità. L’originalità dei linguaggi narrativi.

Se si guarda al “primo piano”, Arnon invita al bar un amico, scrittore non proprio affermatissimo e lì gli racconta tutto. Davanti al tavolo, con continui rimandi per ambientare le sue parole. Gli affida anche un improbabile finale del suo racconto di vita, che non conosce e non vuole conoscere.

Hani invece scrive ad un’amica, dando per scontati i suoi colloqui col pennuto. E infine c’è Dvora che affida le sue confessioni, le sue angosce alla segreteria telefonica. Certo, sapendo bene che il marito morto non potrà mai ascoltarle ma lo fa per non interrompere le abitudini della casa.

Tre storie, che diventano venti, trenta. Cento. Storie di oggetti, di persone. Ma soprattutto storie di relazioni. Fatte di pulsioni, di desideri che non si ha il coraggio di confessare, di desideri che poi si assecondano nella maniera più naturale. Salvo poi pentirsene e poi pentirsi del pentimento.

Relazioni fatte di scoperte degli altri che consentono la scoperta di sé. Dove la quieta morale è ipocrisia, dove la follia può essere una scelta, dove una mancanza può diventare lo strumento per riempire altri vuoti.

Ma forse queste sono parole troppo grosse per un libro che non è e non vuole essere un trattato di psicoanalisi. Ma semplicemente racconti. Racconti profondi. Coinvolgenti. Dove non conta più la trama ma solo la voglia di svelarsi. Racconti difficili, però, se li si vuole trasformare in film.