Magnifici centenari. Il difficile dibattito nel cineforum del Pci

Il 21 gennaio del 1921 nasceva a Livorno il Partito comunista italiano. In occasione dello storico centenario Roberto Roscani riflette su come il cinema e il partito di Gramsci e Berlinguer abbiano intrecciato le loro strade. A partire da un momento chiave: i funerali di Togliatti. Un passaggio d’epoca, un cambio di generazioni e una galleria di personaggi – intellettuali, artisti, studenti, raramente operai – che in qualche modo sembrano aver anticipato la crisi di uno dei più grandi movimenti politici del secolo scorso…

Ho un ricordo personale dei funerali di Togliatti. Avevo meno di 12 anni, era un giorno di fine agosto caldissimo ma non ho memoria del sole, che sicuramente c’era. Ero andato a via delle Botteghe Oscure con mio nonno Gaetano, vecchio partigiano e comunista dal 1922.

Nelle strade che avrebbero portato la bara del segretario fino a piazza San Giovanni, c’erano di sicuro anche mio padre, mia madre, i compagni della sezione di Ponte Milvio, ma io ero solo con mio nonno, un uomo alto e forte. Di quel giorno ricordo bene solo le persone, tante quante non ne avevo mai viste.

Ero stato fin da bambino ai comizi del Primo Maggio, ai cortei che finivano a San Giovanni: la folla che festeggiava o protestava non mi faceva paura. Ma questa era una folla fitta, immobile e stretta, percorsa da ondeggiamenti, colma di dolore, di pianto, di fazzoletti bagnati, di pugni chiusi e segni della croce, di silenzio, schiacciata dal caldo del selciato e dall’aria ferma.

Oggi, mentre il Pci sta per tagliare la data dei cent’anni (anche se non esiste più da almeno trenta), quei funerali hanno assunto ai miei occhi un significato speciale, un grande passaggio d’epoca, un cambio di generazioni, la fine del partito dei fondatori, di quelli che erano a Livorno nel 1921.

Certo ancora per qualche anno uno di loro, Luigi Longo, sarebbe stato segretario, ma una fase era chiusa e se ne accorsero tutti quattro anni dopo, in quel Sessantotto che avrebbe cambiato un po’ tutto. Ecco, raccontare i cento anni del Pci attraverso le immagini dei film o le parole dei libri per me non può che puntare a quel momento. Di sicuro ce ne sono stati molti, non sempre di grande livello. D’altra parte il cinema e la storia parlano poco tra loro se non per metafora. Poi ci sono gli sceneggiati televisivi, quelli che la Rai ha dedicato a Gramsci come a De Gasperi, ma sono un’altra storia.

Certo ci sono stati film come Novecento, il grande racconto corale di Bernardo Bertolucci: ma lì c’era la storia dell’Italia contadina, di una civiltà che stava scomparendo, di amore, sesso, odio di classe, angherie e lotta, agrari e braccianti, il fascismo al suo apice e alla sua tragica catastrofe.

C’era il Pci, ma forse ce n’era di più nel secondo film di Bertolucci, Prima della rivoluzione (1962), in quella Parma così autobiografica per il regista, in cui il protagonista vive la contraddizione delle sue origini borghesi e della sua militanza comunista, le incertezze tra ribellione e conformismo.

Come pure in La strategia del ragno, con quella borgesiana ricerca della verità su un padre eroico antifascista che si finisce per scoprire incerto e quasi traditore, ammazzato dai compagni che non si fidano di lui e che lo trasformano volontariamente in un mito.

Si parla tanto di Pci anche nei film di Scola, dal quasi documentaristico Trevico Torino, al feroce affresco de La terrazza, all’amara commedia di C’eravamo tanto amati tra i sogni partigiani dei protagonisti e la realtà degli anni Sessanta. Un film molto romano, molto smagato in cui i personaggi “tutti buoni” (Manfredi e la Sandrelli) sono insieme affezionati ai valori di quel Pci ma capaci anche di sorridere ai suoi tic, ai suoi riti. E quelli “cattivi” sono finiti in un cinismo travestito da realismo (il socialista Gassman, arricchito sulle spalle del suocero costruttore) e in un idealismo estremista e inconcludente (l’intellettuale meridionale e “gruppettaro” Satta Flores).

Anche ad Alberto Sordi toccò impersonare un giornalista comunista in Una vita difficile di Dino Risi ed è anche questa la storia della crisi di un partigiano (poco coraggioso), di un giornalista d’assalto, di uno scrittore di sceneggiature fallito che si riduce a fare il tirapiedi di un affarista: subisce umiliazioni in cambio di uno stipendio e di una bella macchina. Finirà per ribellarsi e per spingere in piscina il riccone, ma più che l’umile eroismo del soldato de La grande guerra di Monicelli (in cui Sordi e Gassman preferiscono farsi fucilare piuttosto che tradire i loro commilitoni) questo gesto è mesto e preoccupato.

Eppure se dovessi scegliere una chiave, un titolo per raccontare la trama tra cinema e Pci, ne sceglierei uno meno famoso: il film si intitola I sovversivi ed è stato girato nel 1967 da Paolo e Vittorio Taviani ma è ambientato proprio in quel giorno dell’agosto del 1964, quello dei funerali di Togliatti.

I Taviani avevano partecipato alla realizzazione di un celebre (almeno allora) documentario su quei funerali (L’Italia con Togliatti) girato da molti nomi celebri del cinema italiano. Tra le firme c’erano anche Bizzarri, Miccichè, Maselli, Petri, Zurlini, Zavattini, Arlorio. Frammenti di quel documentario fanno da intercalare alle immagini di finzione di una trama costruita tra diversi personaggi arrivati a Roma proprio per partecipare ai funerali.

È la storia di uomini (e una donna) in crisi, tra incertezze politiche e confusioni personali, tra fallimenti e delusioni, tra desiderio di andare avanti e paura di perdere tutto. C’è il funzionario di partito (lo interpreta Giorgio Arlorio che non era un attore ma uno sceneggiatore e regista e che comunista lo era davvero) che trova la moglie a letto con un’altra donna; c’è il regista (De Ceresa) che vuole continuare a girare un film su un immaginario Leonardo Da Vinci (le scene sono ambientate sulla spiaggia molto pasoliniana o felliniana di Sabaudia o Castel Porziano e, chissà per quale caso, proprio sulla spiaggia, anche se di un laghetto laziale, Triosi e Benigni si imbatteranno in Leonardo da Vinci…); c’è l’inquieto neolaureato in filosofia (con la faccia stralunata di Lucio Dalla che fino ad allora aveva fatto solo qualche comparsata nei “musicarelli”), c’è l’esule latinoamericano (Giulio Brogi, attore feticcio dei fratelli Taviani che lo vollero in altri tre film tra cui San Michele aveva un gallo) spaventato dall’idea di dover abbandonare l’esilio per tornare in patria e fare i conti davvero con l’opposizione alla tirannia. Paradossalmente in questo universo incerto e segnato, posto davanti a bivi e a decisioni difficili l’unica cosa che sembra solida è la politica, anzi il Pci tutto raccolto in quell’addio. Ma forse quell’addio conteneva in sé già tutte quelle crisi.

E il ritorno a casa di questi stanchi “eroi” mi fa venire in mente la scena di un altro film sul Pci (e dintorni) di uno dei registi del documentario sui funerali di Togliatti, Citto Maselli. Il cinema di Maselli si può leggere in qualche modo come tutto incentrato sul comunismo, da Gli sbandati, del 1955 a Le ombre rosse del 2009, ma il film a cui mi riferisco è forse il suo più celebre: Lettera aperta ad un giornale della sera (1970).

È il racconto di un gruppo di intellettuali di sinistra che per lanciare una provocazione avevano scritto un appello per chiedere di poter andare volontari per combattere in Vietnam, suscitando la reazione diffidente del Pci ma anche il sì del governo vietnamita. E la scena è quella ambientata alla vigilia della partenza quando scoprono che il Vietnam alla fine preferisce che restino a casa. La reazione è una improvvisata partita in cui prendono nervosamente a calci dei barattoli, all’inizio per sfogare la loro frustrazione e alla fine per salutare lo scampato pericolo.

Forse allora i film sul Pci non sono letteralmente film sul Pci. Sono film su intellettuali, registi, scrittori, architetti, studenti e anche funzionari di partito e raramente operai (ci ha provato davvero solo Elio Petri) e sul loro complesso rapporto con il Pci. E non potrebbe essere che così.